Nel corso di controversie individuali di lavoro, ci troviamo frequentemente in difficoltà nel fornire le prove a sostegno delle rivendicazioni del lavoratore o a sua discolpa. Ci riferiamo in particolare alle vertenze relative a richieste di inquadramento superiore a seguito dello svolgimento di mansioni qualificate oppure ai ricorsi contro le sanzioni disciplinari. E’ il lavoratore che deve fornire la prova di aver effettivamente svolto determinati incarichi o di aver agito nel rispetto delle direttive impartitegli o delle norme aziendali.
A questo proposito rileviamo con crescente frequenza che il calce alle circolari, alle comunicazioni di servizio ed ai regolamenti interni viene apposta la dicitura «riservato ad esclusivo uso interno» o altra nota dello stesso significato che richiama alla riservatezza del documento ed al divieto della diffusione del suo contenuto. Altrettanto severe sono le disposizioni interne in materia di tutela del segreto bancario e della riservatezza dei dati relativi ai rapporti con i clienti ed in genere all’ attività complessiva del settore bancario. Le aziende fanno della riservatezza una bandiera da sventolare in tutte le occasioni a loro utili, salvo quando si tratti della riservatezza del lavoratore che ora in poi potrà essere «monitorato» nella sua attività quotidiana con l’uso degli strumenti di lavoro che l’azienda gli fornisce: telefono, cellulare, computer aziendale, tablet, eccetera.
Se in effetti fosse preclusa al lavoratore la facoltà di utilizzare documentazione di provenienza aziendale per la sua difesa in giudizio – come vorrebbero le banche – le uniche prove disponibili sarebbero quelle testimoniali. Credo però che sia noto a tutti quanto difficile e pericoloso sia fondare le proprie difese solo sui testimoni, specialmente quanto si tratti della testimonianza di altri dipendenti. Oltre alla labilità della memoria umana, entrano infatti in gioco anche le pressioni ed i condizionamenti provenienti dall’ambiente di lavoro che spesso rendono lacunose e inconcludenti le deposizioni così raccolte.
Appare quindi preferibile il ricorso alle prove documentali, anche di provenienza aziendale. Contrariamente infatti a quanto vorrebbero farci credere le controparti, è possibile utilizzare in giudizio copia di documenti bancari a difesa delle proprie ragioni. Il principio è stato recentemente ribadito dalla Corte di Cassazione Sezione Lavoro nella sentenza del 4 dicembre 2014 n. 25682. Ritengo utile ricapitolare i principi fissati dalla sentenza che possono considerarsi delle vere e proprie linee guida per la difesa del lavoratori:
- Il lavoratore che produca in una controversia di lavoro copia di atti aziendali riguardanti direttamente la propria posizione lavorativa non viene meno ai doveri di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c. Il limite posto dalla Corte è solo quello dell’attinenza diretta della documentazione prodotta alla posizione lavorativa della parta in causa. E’ sufficiente quindi non esagerare: non bisogna utilizzare documenti riferiti al operazioni che nulla hanno a che vedere con il tema della causa. La Corte motiva il principio sopra enunciato statuendo che la corretta applicazione delle norme processuali è idonea ad impedire la divulgazione dei documenti prodotti e che comunque il diritto di difesa sancito dall’ art 24 della Costituzione deve essere considerato prevalente rispetto ad eventuali esigenze di riservatezza;
- La possibilità di chiedere al giudice l’emissione di un ordinanza che disponga l’esibizione dei documenti di interesse per la causa ai sensi degli artt. 118 e 210c.p.c. non è rimedio sufficiente perché nel frattempo essi potrebbero essere distrutti o occultati;
- Nessuna conseguenza negativa potrebbe derivare al lavoratore anche qualora i documenti prodotti si rivelassero ininfluenti ai fini della decisione: la Corte argomenta in fatti che «le modalità di esercizio del diritto di difesa vanno valutate ex ante e in astratto – ossia prima della decisione giudiziale avuto riguardo soltanto alla loro connessione con il thema probandun – e non ex post» in quanto «le motivazioni espresse dal giudice» appaiono «non prevedibili dalla parte nel momento in cui imposta e documenta le proprie argomentazioni difensive»; si richiede pertanto solo un’astratta attinenza della documentazione al caso in questione;
- La violazione del principio della riservatezza nel caso in esame non può essere configurata come giusta causa o giustificato motivo di licenziamento disciplinare, né può essere fonte di obbligazioni risarcitorie in capo al dipendente ex art. 1218 c.c in quanto costituisce legittimo esercizio di un diritto (precisamente del diritto alla difesa che sancito dall’art 24 della Costituzione) e quindi tale condotta è «coperta dalla scriminante prevista dall’ art 51 c.p., di portata generale nell’ordinamento e non già limitata al mero ambito penalistico».
I principi sopra enunciati possono considerarsi consolidati: l’ultima sentenza conforme reperita è quella del Tribunale di Vasto3 marzo 2015, Est. C. Salusti, pubblicata sul sito internet di informazione giuridica «il Caso». In conclusione possiamo affermare che il corretto uso in giudizio di copia di documenti aziendali, nei limiti sopra indicati, può costituire il mezzo di prova più utile ed efficace a sostegno dei diritti del dipendente e può essere utilizzato – a preferenza di altri mezzi di prova – ogni qual volta se ne ravvisi in concreto la necessità.